Recensione di Valentina apparsa su “il Bo” il 16 agosto 2012 del romanzo “All’impazzata” di Françoise Sagan (Astoria edizioni, 168 pagine).
“È proprio necessario amare, insomma, avere una passione infelice, è necessario lavorare, guadagnarsi da vivere, fare delle cose, per esistere?” chiede Lucile, giovane mantenuta, al suo “amante-papà” Charles, in una pagina di La Chamade di Françoise Sagan, testo poco noto della prolifica autrice francese, pubblicato nel 1965 e ora ripubblicato in Italia dalla neonata casa editrice Astoria (All’impazzata, Edizioni Astoria, 2011, 15 euro).
La domanda è lecita: il lettore se l’aspetta dopo più di 50 pagine in cui ha dovuto fare i conti con il personaggio bizzarro di una trentenne, affascinante quanto naïve, che nulla ha a che vedere con le trentenni di oggi. Lucile si lascia vivere nel bel mondo parigino senza nessuna remora, con il pensiero rivolto solo al presente, chi deve solo cercare di sopravvivere e pertanto non riesce a pensare ad altro che a riempirsi la pancia, a soddisfare un bisogno primario. Per Lucile, il bisogno primario è la felicità.
Così vive alle spalle di Charles, di vent’anni più vecchio, che la introduce nei salotti perbene dove Lucile conosce Antoine, studente senza un soldo, anch’egli alla mercé di una donna “matura”, che cerca di tenerselo stretto alternando crisi di gelosia a momenti di libertà assoluta. Pare un’operetta: c’è perfino la ruffiana, Claire, con tanto di paggetto, l’omosessuale Johnny, ed è proprio in casa di Claire, durante una cena mondana che avviene l’inevitabile: Lucile e Antoine si innamorano. Ci vorrà solo qualche pagina perché i due giovani decidano di vivere la passione che li ha travolti, con la tacita e assurda complicità dei rispettivi amanti, rassegnati e sofferenti.
Non è certo la trama, ovviamente, il punto focale (né di pregio) del romanzo, che infatti con il titolo La disfatta era stato pubblicato a suo tempo da Mondadori nella collana I romanzi d’amore di Grazia (la rivista); sono invece i pensieri che evocano le parole scandite e piane della Sagan ad avere confini incredibilmente più vasti, quelli di una riflessione esistenziale molto amara. I personaggi che l’autrice mette in scena sono infatti degli infelici, tutti indistintamente: chi si vede ormai tagliato fuori dalle emozioni della vita e le insegue corteggiando la gioventù altrui, chi, anche se sembra avere tutto, si sente come se non avesse niente mancando di quell’unica cosa che sembra essenziale: la felicità.
Per Lucile felicità significa libertà di vivere, è quel vento che per tutto il romanzo sembra alzarsi al suo passare: “Un vento brusco, deciso […] trasformava la tenda in una vela, faceva inclinare i fiori nel grande vaso poggiato per terra […] investiva il suo sonno. Era un vento di primavera, il primo: […] aveva attraversato i sobborghi di Parigi […] e giungeva all’alba in camera sua, leggero, spavaldo, per ricordarle, prim’ancora che riprendesse coscienza, il piacere di vivere”.
Il suo è il personaggio cardine della vicenda, perché suoi sono gli occhi con cui il mondo è vissuto: pochi dialoghi e invece molte pennellate che tratteggiano luoghi e sensazioni filtrate dal pensiero. Il mondo maschile è poco approfondito, lasciato quasi sullo sfondo: gli uomini sono comprimari, privi di potere decisionale, se non al negativo, nella “non-azione”, un po’ come accade nel celebre Le piace Brahms? del 1961, che era però la storia di una vera e propria ossessione amorosa.
Lo spirito di All’impazzata è più lieve e l’operazione editoriale della casa editrice Astoria, che lo ripropone con un titolo nuovo (forse per dissociarlo dall’edizione rosa per signorine?) in una collana dedicata alla letteratura di pregio “dimenticata”, capace di guardare al mondo con leggerezza, riesce in pieno. Leggendo il romanzo, infatti, ci si perde nel mondo della Parigi anni Sessanta, tra le pieghe disfatte di un letto e un calice di champagne, ma si è anche spinti a riflettere almeno una volta su quali siano le forze interiori che governano le scelte di tutta una vita. La Sagan stessa, dopo un esordio clamoroso, giovanissima, con Bonjour tristesse divenne un mito agli occhi della gioventù negli anni Sessanta, per poi morire a soli 69 anni alcolizzata e tossicodipendente in un ospedale della Normandia, indigente, magrissima, dimenticata. Piace ricordarla quindi con le parole che, ignara di quel che anni dopo le sarebbe accaduto, fa dire a Lucile: “Ci sono a volte, nella solitudine, momenti di felicità perfetta, il cui ricordo, in situazioni di crisi, può salvare dalla disperazione più di quanto possa fare quello di qualsiasi evento esteriore. Poiché sappiamo che siamo stati felici, soli e senza motivo. Sappiamo che è possibile”.
Valentina Berengo