Articolo di Valentina apparso su “il Bo” il 15 luglio 2013.
Sulla scia dell’affermazione di Galileo secondo cui “il libro della natura è scritto in linguaggio matematico”, Ian Stewart, professore emerito di matematica all’università di Warwick, in Inghilterra, presenta nel suo ultimo saggio In the pursuit of the unknown- 17 equations that changed the world, le diciassette equazioni che “hanno cambiato il mondo”.
La sua però non è solo un’apologia della bellezza della matematica: Stewart afferma qualcosa di più radicale, anche perché tra le equazioni con potere dirompente non ci sono solo gli enunciati che descrivono il mondo fisico (la legge di Newton, per esempio, che esprime la forza di attrazione tra due oggetti, e che è stata poi conglobata in una teoria, fatta di equazioni, più generale: la teoria della relatività di Einstein), ma anche semplici verità tautologiche, o equazioni che sono poco più di definizioni (per esempio l’identità dei logaritmi di Nepero – lo stesso che ha dato il nome alla famosa costante e – secondo cui il logaritmo di un prodotto è uguale alla somma dei logaritmi), o ancora equazioni che hanno puro valore matematico, ossia discendono da assiomi, la cui assunzione ha come conseguenza la veridicità dell’equazione stessa (per esempio il teorema di Pitagora, applicabile nello spazio euclideo).
Ciò che tutte hanno in comune, spiega il matematico inglese, è la potenzialità, una volta “liberate”, di innescare eventi, e gli eventi, parafrasando l’ex primo ministro inglese Harold MacMillian, “sono quello che ci tiene svegli la notte”. Certo, le equazioni hanno bisogno d’aiuto per cambiare il mondo: per esempio necessitano di persone d’ingegno che con la loro immaginazione vedano oltre quello che esse dicono. Occorrono mezzi e risorse per indagarne in profondità le conseguenze. Queste poi, possono essere negative o positive indipendentemente dall’intenzione di chi le ha portate alla luce, che molto spesso aveva in mente tutt’altro: si narra, per esempio, che fu mentre cercava di capire com’è che i gatti cadono sempre in piedi (grazie cioè al “riflesso verticale”) che Maxwell se ne venne fuori con le equazioni per l’elettromagnetismo. Altre volte, invece, l’inventore presagiva la portata dirompente della sua scoperta: leggenda vuole che Michael Faraday, durante una conferenza alla Royal Institution di Londra in cui dimostrava – prima che Maxwell sviluppasse l’intera teoria – il legame tra elettricità e magnetismo, alla domanda del primo ministro William Gladstone sulle conseguenze pratiche delle sue teorie, abbia risposto: “Ci sono, Sir. Un giorno le tasserete persino”.
O ancora chi avrebbe detto che un numero tanto astruso come il numero immaginario i (corrispondente alla radice quadrata di -1) potesse uscire dai confini dell’algebra e diventare indelebilmente legato al mondo dei quanti fisici, che sono a loro volta alla base della moderna elettronica, quindi di tutti gli sviluppi tecnologici da cui oggi siamo dipendenti? O che la fisica di Einstein avrebbe sì portato ad una nuova comprensione del mondo, evidenziando l’inscindibile e complesso legame tra le dimensioni di spazio e tempo, ma sarebbe stata alla base delle armi nucleari?
Ma c’è di più a detta di Stewart: alcune equazioni sono universalmente valide, altre descrivono il mondo in modo molto accurato, anche se non perfetto, altre sono invece perfettibili ma possono essere comunque considerate delle pietre miliari per la conoscenza successiva. Altre ancora, invece, sono preziose perché pongono questioni di natura filosofica sul mondo in cui viviamo e sulla nostra influenza su di esso. È il caso della teoria di Schrödinger, che con il celeberrimo paradosso del gatto, mostrò le conseguenze inconcepibili, per il nostro modo di pensare, dell’interpretazione classica della meccanica quantistica quando il livello subatomico interagisce con il livello macroscopico. Nell’esperimento ideale pensato da Schrödinger un povero gatto viene chiuso in una scatola con un contatore Geiger contenente un poco di sostanza radioattiva, la cui probabilità di dar luogo alla disintegrazione di una particella è pari a quella che la disintegrazione non avvenga. Se dovesse avvenire, il contatore azionerebbe un relais di un martelletto che romperebbe una fiala di cianuro in grado di uccidere il gatto. Ma, fintanto che l’osservatore non apre la scatola e modifica il livello energetico delle particelle, che dal punto di vista quantistico hanno la capacità di collocarsi in diverse posizioni contemporaneamente e anche di esser dotate di quantità d’energia diverse al medesimo istante, il gatto deve considerarsi contemporaneamente sia vivo che morto. Ecco il paradosso, che richiama alla mente l’empirismo inglese, per cui nulla esiste indipendentemente dal soggetto che osserva, solo che dall’empirismo alla formulazione della teoria dei quanti sono passati più di due secoli.
Anche questa è la potenza di un’equazione. Certo le equazioni sono tutto meno che facili, perfino quando lo sembrano (si ricordi che più il loro enunciato è semplice e più è considerato elegante). In questa direzione va il desiderio recondito della gran parte degli scienziati, matematici o fisici che siano: quello cioè di trovare “l’equazione universale”, di forma semplice e che fondi una teoria in grado di includere tutte le altre. Ai tempi di Einstein si cercava l’equazione per la “teoria del tutto”, che fosse in grado di gestire contemporaneamente l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.
Gli informatici, invece, oggi preferiscono spaziare nel mondo del discreto – o del discretizzato -, anziché del continuo, quindi degli algoritmi, gestibili da una calcolatore, anziché delle equazioni, ma in questo caso si perderebbe la magia dell’equazione, la vertigine offerta a chiunque attraversi un ponte: quella di godere di una vista memorabile.
Valentina Berengo