di Luca Leone
In una sera primaverile del 1953, il trentenne Ranieri III, sovrano del principato di Monaco, per concedersi un po’ di svago, si toglie divisa e lustrini di dosso e si camuffa da uomo del popolo. Desidera immergersi nella vita notturna del piccolo principato di cui è il regnante da circa quattro anni evadendo, per una volta, dai suoi oneri di capo di stato.
Dopo essersi aggirato incuriosito per vie costeggiate da affollate locande, entra nel Cabaret Arlequine. Ad un certo punto della nottata assiste, nascosto nell’ombra per non dare nell’occhio, alla performance di un certo Léo Ferré. Come è comprensibile, non l’ha mai sentito nominare: appartiene ad una zona di mondo oscura, lontanissima dalla sua, infinitamente più povera e disgraziata. Ignora che Ferré è un cantautore vagabondo, discendente per linea diretta dalla migliore, e dalla più dannata, tradizione poetica in lingua francese, discendenza da lui santificata con diverse trasposizioni in musica delle poesie più belle dei poeti maledetti.
Come Baudelaire, Apollinaire o Rimbaud, porta segnate sul corpo le cicatrici della vita che ha scelto, di una vocazione all’arte che scava a fondo.
Ha una fronte molto ampia, con disegnate sopra rughe già evidenti nonostante la giovane età (ha solo trentasette anni) che sembrano diventare un pentagramma appena alza le sopracciglia. Sotto la fronte, occhi teneri e intelligenti e un sorriso da bambino, due ottime ragioni per cui Madeleine, sua moglie, tre anni prima, lo ha scelto come compagno.
Quella sera di primavera del 1953 canta “Paris Canaille“, con Madeleine che lo guarda, e che lo sospinge come più convinta sostenitrice, non per la prima e non per l’ultima volta.
Ranieri III non può sapere chi è Léo Ferré, ma ci mette poco ad innamorarsi: della sua persona, della sua lunga canzone… dimentica di essere in incognito e si lascia andare ad applausi sonori e compiaciuti. Nonostante ciò, nessuno sembra notarlo, né tantomeno riconoscerlo. Invece, qualche minuto più tardi, proprio Ferré gli si avvicina. Gli confida che sua moglie ha visto oltre la sua maschera da uomo comune, e che lo ha spinto a farsi avanti.
“Wagner ha avuto il suo Luigi di Baviera, vi chiedo di essere il mio Ranieri di Monaco!” gli propone in un moto di coraggio. Ciò che Ferré sogna intensamente da tempo è di avere a disposizione un teatro tutto suo, con davanti una vera orchestra per eseguire il suo oratorio lirico sul testo “Chanson du mal-aimé” di Apollinaire.
Ranieri III, uomo istintivo, di buon cuore e leggermente incosciente, non gli dice di no, come forse qualsiasi altra persona del suo rango in quella situazione avrebbe fatto. Si dichiara interessato e gli dà appuntamento di lì a due giorni, nella casa di Ferré e signora, con la volontà di discutere la proposta. Va lui stesso a trovarli nel loro nido d’amore decadente, talmente malmesso da non disporre neanche di un bagno. Il risultato dell’incontro è che il 27 Aprile 1953 Ferré dirige l’oratorio lirico all’opera di Montecarlo, in abiti insolitamente eleganti, inabissato dagli applausi del pubblico, naturalmente alla presenza di Ranieri III, nel palchetto d’onore.
È forse questo il primo vero momento di notorietà di Ferré, a cui darà seguito con altre decine di vinili che, negli anni immediatamente successivi, finiranno un po’ ovunque nel mondo. Persino nei negozi di dischi della nuova Turchia, che si stava progressivamente occidentalizzando, anche grazie a riferimenti culturali musicali, come quello offerto da Ferré. Verrà citato persino nei libri, come ne “Le fredde notti dell’infanzia” della scrittrice Tezer Özlü.
L’attore turco Güner Sümer, marito dell’autrice lo ascolta in continuazione, mentre è assieme a lei ad Ankara (pagg. 86-87) per venire proiettato nell’atmosfera magica di Parigi, la città unica a cui crede di appartenere.
È questo il primo momento in cui Léo Ferré compare nel libro. La grande devozione di Güner per le canzoni di Ferré, fa sì che esse agiscano da rituale evocativo dell’immagine del marito: anche dopo anni di separazione, Tezer Özlü rivive il loro amore grazie a quelle note. Arriva ad identificarlo così intensamente con Ferré, da assimilarli, equipararli, quasi confonderli (pag. 87). Quando assiste ad un concerto di Ferré a Berlino rivede, nei suoi passi e nei suoi movimenti, quelli caratteristici del marito (pag. 87).
A livello narrativo, la sovrapposizione tra i due uomini dà l’innesco ai suoi pensieri e alle sue memorie: la prima della lunga sequenza di associazioni tramite cui si collegano le immagini della parte più sofferta del suo passato. I riferimenti a Ferré sono come delle piccole parentesi di salubrità, una pausa per riprendere fiato, il luogo dove il lettore riatterra dopo aver seguito da vicino il “salto nel vuoto” del suo cervello, trasposto in scrittura con una fedeltà che a tratti fa rabbrividire. È come se costituissero un tempo a parte, una specie di terraferma, il limite ultimo prima del salto.
Confrontando la biografia del cantante con quella della scrittrice, presente in dosi consistenti all’interno delle centoventi pagine, inoltre, si notano vari punti di congiunzione, che giustificano la scelta di attribuirgli un ruolo così centrale (un capitolo porta il titolo di “Il concerto di Léo Ferré“, pag. 71). Entrambi vengono educati in collegi che martoriano le loro giovani menti. Entrambi viaggiano continuamente, per sfuggire al pensiero borghese, ad un legame troppo stretto con la famiglia, soprattutto al potere. Ferré è un anarchico, Özlü partecipa sentimentalmente, anche quando è impossibilitata nel corpo, alla causa rivoluzionaria turca. Tutti e due hanno scelto l’arte, e da essa sono stati, nonostante tutto, salvati.
“Provoco all’amore e all’insurrezione… sì, sono un immenso provocatore”, frase celebre di Ferré, si sposa perfettamente con l’ideale di vita di Tezer Özlü.
Ascolta “Col tempo” dei Baustelle (cover del pezzo di Leo Ferrè).
E questo è il racconto che ne fa Luca Leone in radio (scarica il podcast qui):