di Luca Leone
Lo scorso 7 febbraio ha avuto inizio la sessantasettesima edizione del Festival di Sanremo, evento su cui si concentrano più critiche che apprezzamenti, in maggior misura in tempi recenti. I detrattori degli anni duemila possono dare sfogo alla loro indignazione al riparo dello schermo, sui social network:
improprio sperpero di denaro, truccato sfoggio di un benessere inesistente, trionfo del vecchio sul nuovo
sono alcune definizioni che sintetizzano il pensiero di una buona fetta di opinione pubblica sul Festival di Sanremo.
Ciò che conta, al di là di tutte le possibili e in parte condivisibili accuse, è la certezza che anche quest’anno è stato ugualmente, universalmente seguito. Lo spettatore tipico scruta rapacemente in ogni aspetto della sfarzosa messa in scena, cercando di cogliere i particolari più stravaganti: un tatuaggio in zone proibite, i colori e i merletti dei vestiti dei cantanti, gli innalzamenti e gli abbassamenti delle scale fantascientifiche e soprattutto, gli errori e gli imprevisti.
I fuori programma sono paradossalmente parte integrante della scaletta, perché una così ambiziosa manifestazione in diretta, presenta congenitamente margini di fallibilità. Tutto ciò, oltre a rendere lo show più accattivante, permette allo spettatore di sentirsi superiore, gli conferisce il potere di giudicare e la facoltà di prendere le distanze.
È con questo approccio da intransigente critico che lo scrittore Mauro Covacich, io narrante nel racconto “Ogni giorno che va via è un quadro che appendo”, contenuto nella raccolta “La Sposa” (Bompiani), prende parte ad una serata di commento collettivo del concorso canoro. L’autore, in questo come in altri racconti, parla di vicende che sono quasi sempre realmente accadute, portandoci testimonianza di realtà straordinarie, cui gli basta aggiungere il suo tocco o la sua riflessione, per dare loro grande dignità letteraria.
Ospite a casa di amici della sua compagna, per vedere il Festival di Sanremo appunto, abbandona ogni scetticismo da intellettuale alle prese con un prodotto di discutibile valenza culturale, e si fa coinvolgere pienamente nell’atmosfera spensierata. Quella cui assiste è una delle serate (presumibilmente la prima) dell’edizione del 1994, che sarà ricordata per il secondo posto di Giorgio Faletti con la canzone “Signor tenente” e per la vittoria di due artisti ciechi: Andrea Bocelli con “Il mare calmo della sera”, tra le giovani promesse, e Aleandro Baldi e la sua “Passerà”, tra i big.
Covacich nel racconto, tuttavia, non prende minimamente in considerazione i due trionfatori e accenna solo sbrigativamente ai presentatori senza fare nomi (Pippo Baudo, Anna Oxa e la modella Cannelle). Narra invece, con dovizia di particolari, della grottesca e indecifrabile esibizione del cantante Alessandro Bono.
L’artista, secondo le parole dello scrittore, confermate dalla registrazione caricata su YouTube, dà l’impressione di essere quanto di più simile ad un pesce fuor d’acqua, inadeguato sotto ogni punto di vista rispetto al contesto in cui si trova ad esibirsi. Eppure non è la prima volta che prende parte al Festival, vanta due precedenti partecipazioni, nel 1987 e nel 1992, e un curriculum musicale di primo livello, con tre album pubblicati e l’apertura dei concerti di Gino Paoli e Bob Dylan. Ancor prima che inizi a cantare, però, scatena ilarità per il suo abbigliamento e per il suo sguardo stralunato e perso. È una preda agonizzante che si offre al cinismo di Covacich e dei suoi amici, nonché dei milioni di spettatori sparsi nel mondo.
L’insicurezza con cui intona le prime note lo consacra come vittima ideale del dileggio spietato in eurovisione. Stona, palesemente, durante tutta l’esecuzione. Anche se non si è esperti di musica si avverte l’imperfezione disturbante, il coro è in imbarazzo, il pubblico raggelato. Covacich è allo stesso tempo irritato e incuriosito dalla irregolarità del personaggio e dal suo modo di cantare: istintivamente si sente rassicurato dalla superiorità che la disastrosa performance gli permette di assumere. Ma la sua risata non è del tutto spontanea, c’è qualcosa che gli sembra di scorgere che gli impedisce di abbandonarsi del tutto.
L’autore friulano non ha ancora trent’anni quando tutto questo accade: è pressoché coetaneo di Bono, e, al tempo di ambientazione del racconto, sta conoscendo i primi successi letterari partecipando in prima linea alla corsa verso l’avvenire dell’Italia, ancora scottata dalle inchieste di mani pulite, ma ostinatamente ottimista.
“Oppure no”, canzone che Alessandro Bono canta a Sanremo, rema contro a tutto ciò, ha un testo anticonvenzionale, quasi criptico, sembra una specie di agrodolce inno alla vita.
“La risposta amore mio, la stiamo vivendo, ogni giorno che va via, è un quadro che appendo” recita il ritornello. Lancia speranzosi messaggi di progresso per un futuro migliore, per una storia d’amore superiore al passare del tempo, smorzati a fin di strofe da inusuali che dicono: “oppure no”, smentendo in parte quanto appena cantato. La canzone è in realtà una domanda aperta, un quesito che Bono pone a se stesso e al mondo: tutto ciò che ci auguriamo potrà davvero realizzarsi? L’unica risposta che il cantante sa darsi è una non risposta, un realistico accontentarsi del passato vissuto e del presente in atto.
Il definitivo svelamento del significato del testo, viene offerto indirettamente da ciò che accade nella vita di Alessandro Pizzamiglio, in arte Alessandro Bono, qualche mese dopo la fine di Sanremo, che conferma una verità nascosta, da Covacich solamente intuita, in quella sera di risate davanti allo schermo assieme agli amici della sua compagna. È un epilogo raggelante che porta a riconsiderare tutto il racconto e la performance in esso descritta.
BONO si è rivelato un signore fino alla fine: ha tenuta nascosta la sua terribile malattia per non cadere in una cornice scontata che avrebbe sicuramente giovato nella sua partecipazione a Sanremo,;in silenzio e senza troppo clamore si è esibito su un palco spietato che non gli ha risparmiato critiche e malvagità.sarebbe stato molto più facile rendere pubblica la sua drammatica situazione di salute e il testo sarebbe stato subito compreso ed inneggiato…ma Alessandro non era un cantante che usava le sue tragedie personali per vendere di più ed attirarsi la simpatia degli spettatori ,era un artista vero, autentico ed ha voluto presentarsi al festival così , puro come era nell’animo…invito tutti i suoi detrattori a fare un passo in più ed a documentarsi sulla sua breve ma intensa e profonda attività ..lo capirebbero e lo apprezzerebbero per il grande autore e artista che è stato
Ciao Carla, grazie del tuo messaggio che condividiamo a pieno. Se leggi il racconto che Covacich gli dedica, lasciaci un altro commento. A presto