Oggi ti consigliamo il romanzo Cronaca di lei di Alessandro Mari (Feltrinelli editore, collana I narratori, 303 pagine). Ti piace sei sei fatto così:
Genere: maschio o femmina
Età: dai 25 anni in su
Carattere e stato d’animo: sei un osservatore disincantato del mondo presente. Quello che più di tutto ti affascina è il concatenarsi, a volte in mondo apparentemente illogico, delle cose, delle persone e degli eventi. In questo momento sei in cerca di una risposta.
Libri piaciuti: Ventiquattro secondi di Simone Marcuzzi, La nostalgia degli altri di Federica Manzon, Le mille luci di New York di Jay McInerney.
Abbiamo intervistato lo scrittore. Ascolta l’intervista premendo play qui sotto o scarica il podcast qui:
D: C’è una frase che compare più volte nel romanzo, dice: “Il destino è degli altri”, cosa vuol dire? Il tuo libro è un romanzo sul destino?
R: Può essere anche un romanzo sul destino se per destino intendiamo la strada che tentiamo di percorrere aspettando che la vita ci regali qualcosa, e poi scopriamo che talvolta invece non ci regala nulla. Tutti i personaggi all’interno del romanzo aspirano a qualcosa, non arrivandoci mai, e credono che la vita possa essere più benevolente nei confronti degli altri. E questo genera una serie di attitudini verso gli altri che definiscono l’umore del libro.
D: I protagonisti, a dispetto del titolo sono più d’uno: Milo Montero classe 1987, pugile; lei, la sua ragazza (di cui il lettore ignora il nome); Irene sorella e manager di Milo; Leo Ruffo, lo scrittore incaricato della biografia del pugile. Sono tutti accumunati dall’avere una ferita: Milo praticamente non ci vede da un occhio, la ragazza ha una cicatrice sulla schiena, lo scrittore viene investito e si spezza una gamba, la migliore amica della ragazza ha delle forti fitte a un polso. Perché hai fatto questa scelta?
R: Il libro racconta sostanzialmente l’incontro di due persone che lavorano con il corpo: la ragazza senza nome, che di mestiere vorrebbe fare la modella, e un pugile, e il corpo è il mezzo con cui attraversano la vita e che reca i segni che la vita lascia. Nel caso di Milo è abbastanza evidente, nel senso che facendo il pugile è ammaccato, la ragazza ha una ferita che allude a quello che la vita le ha scritto addosso, anche se il lettore deve scoprire cosa senza poter “entrare” dentro di lei, che solo agisce sulla scena. Ruffo viene ingaggiato da Irene per scrivere la biografia del campione e guadagna una “nuova” ferita stando accanto al pugile e cercando di capire che diavolo succede nella vita di una persona che abita una reclusione dorata, come spesso succede ai campioni sportivi, e intanto da lì guarda il mondo, e ricorda l’altro mondo, molto più meschino, da cui è fuggito.
C’è una frase del romanzo con cui l’abbiamo descritto nella quarta di copertina che è “Vedere o non vedere la vita che ti viene addosso” e la conseguenza della vita che ti viene addosso sono proprio le ferite, perciò tutti i personaggi ne hanno, come tutti noi, immagino.
D: E come mai lei è senza nome?
Questo personaggio nasce da una mia esigenza molto personale, perché abitiamo un’epoca di sovraesposizione totale: siamo esposti per immagini e siamo esposti per parole. Siamo nell’ultima fase di un certo tipo di mondo che ha fatto dell’esposizione dei corpi, delle merci, delle cose uno dei suoi dogmi. E a me invece affascina moltissimo fermarmi e apprezzare i momenti di opacità di questo mondo: vincere il pregiudizio di poter capire una persona da un selfie o da una sbobinata di pensieri che schiaffa su internet. Tutto lo sforzo del romanzo è esattamente questo: creare una protagonista, per me molto affascinante, che non ha bisogno di esporsi. E la cosa prima con cui ci esponiamo è il nome. E per dare più dignità a lei, e a tutti gli altri protagonisti che hanno un nome, gliel’ho tolto.
D: Il pugile quando combatte o s’allena trasmette una sensazione di epicità, penso ad esempio al racconto di quando l’allenatore lo fa boxare sulla musica di Beethoven. C’è qualcosa di tragico, quasi di disperato, in questo modo di intendere lo sport. Cosa ne pensi?
R: La figura di pugile ha sempre affascinato i letterati. Nella boxe c’è qualcosa che rappresenta la vita di ciascuno di noi: quei momenti in cui ci ritroviamo soli contro gli incidenti (o gli accidenti) che, nel caso della boxe, sono rappresentati dall’avversario, e quindi possiamo resistere, cadere, rialzarci. Quel sentimento epico che si sente nella boxe è l’eco di quello che fa parte di tutte le nostre esistenze singole. Talvolta però, per il contesto storico e sociale in cui è inserito, come nel caso del romanzo, questo sentimento viene “sporcato” dai meccanismi della realtà, perché la carriera di uno sportivo che ha fama planetaria come Milo declina naturalmente anche un impero economico. Succede moltissime volte a tanti campioni, non serve fare i nomi. Questo impero economico ha delle regole che nel romanzo sono incarnate da Irene, la sorella di Milo che gli fa da manager, ed è lei, paradossalmente, la seconda protagonista principale del libro. Se cioè dovessi descrivere il libro a qualcuno che non l’ha ancora letto, gli direi che è un ring dove in mezzo c’è un pugile e ai due angoli ci sono due donne, Irene e la ragazza, che si prendono a pugni colpendo lui.
D: C’è un altro elemento cardine del romanzo: il clan, una massa gravitazionale che attrae i personaggi verso di sé.
R: È vero. Quando le persone con questo tipo di carriera professionale sfondano, si circondano di altri che garantiscano loro una certa quiete, certe abitudini che siano sportive, o di vita, o quotidiane. Queste persone servono come filtro contro la realtà e possono diventare dei centri asfittici. Pur proteggendo Milo, pur coccolandolo, pur guidandolo nella sua carriera, diventano l’unico suo punto di riferimento. La ragazza in questo senso è l’elemento di novità: è una ragazza che semplicemente incontra, che non viene dal suo mondo, che non ha partecipato alla sua ascesa di campione, ed è un elemento che ancora lo affascina, innanzitutto sessualmente, ma la cosa che ha intrigato me nello scrivere è stato far capire cosa si muove dentro questi corpi che si incontrano carnalmente.
D: Tu sei un cantore dell’amore, anche quello carnale, in effetti. Nel romanzo ci sono parecchie scene abbastanza esplicite. Come hai fatto a trasferire dulla carta delle esperienze così fisiche?
R: Non saprei bene dirtelo. Le ho viste. Sono scene che uno si immagina, e quando si siede davanti allo schermo descrive quello che sta immaginando. Poi c’è stata grande attenzione nella riscrittura per levare il superfluo e lasciare l’essenziale. In quasi tutti i miei romanzi ci sono corpi che fanno qualcosa perché è un aspetto della vita che mi interessa ed è, secondo me, un aspetto non secondario. Noi siamo fatti di razionalità ma anche di corpo che, come per gli animali, si muove in uno spazio: il nostro è la città.
D: Graficamente il romanzo è costituito da paragrafi anche molto brevi intervallati da un segno a forma di freccia. Hai scelto tu la freccia? e perché?
R: L’ho voluta mettere io, e in casa editrice fortunatamente mi hanno dato retta, perché il pugile ha un soprannome per me molto importante che è One Way − a senso unico − che rappresenta il suo modo di combattere: andare sempre avanti malgrado tutto ciò che gli avversari gli tirano addosso. Ma è anche il modo in cui noi ci muoviamo: sembriamo addestrati a percorrere una sola direzione, andando avanti senza mai fermarci, senza mai permetterci detour, scarti da binari che sembrano diventare obbligati, non naturali. Quindi mi piaceva che graficamente questo elemento insistesse ossessivamente nel libro e avesse al suo interno una presenza, ancora una volta, “fisica”.