Rileggiamo a dodici anni dall’uscita il romanzo d’esordio di Alessandro Piperno, Con le peggiori intenzioni (Mondadori, collana Scrittori italiani e stranieri, 304 pagine). E crediamo che possa piacere a te che sei questo tipo di lettore:
Genere: maschio o femmina
Età: dai 20 anni in su
Carattere e stato d’animo: sei un gran cinico, lo ammetti tu stesso. Da sempre gli amici ti consultano per avere una visione smaliziata del mondo, per comprendere le dinamiche relazionali, anche i più semplici bisticci. Poi, però, a volte, ti dicono che dovresti vivere con più leggerezza!
Libri piaciuti: Felici i felici di Yasmina Reza, La versione di Barney di Moredecai Richler, La famiglia Winshaw di Jonathan Coe.
Abbiamo la fortuna sfacciata di aver intervistato l’autore: se premi play qui sotto scopri cos’ha risposto Piperno alle nostre domande, anche un poco sfacciate (oppure scarica il podcast qui):
Se invece sei uno che le interviste preferisce leggerle (ma val la pena ascoltare, sennò ti perdi le sfumature!), l’abbiamo trascritta qui sotto:
D: Sono passati dodici anni da quando Con le peggiori intenzioni è stato dato alle stampe, riscuotendo un successo clamoroso. All’epoca lei era poco più che trentenne. Non si stupisce di aver creato un’opera così matura, e a tratti così cinica, quand’era così giovane?
R: Non saprei dirle. Diciamo che è un libro che fu scritto quando avevo sostanzialmente rinunciato a scrivere narrativa, perché, nonostante fossi abbastanza giovane − di norma nella nostra epoca gli esordi romanzeschi arrivano verso i 20-25 anni −, ci avevo provato per qualche tempo, ma mi ero convinto di potermi dedicare solo a cose accademiche. Invece, dopo una psicanalisi molto serrata, uscì fuori quel libro, che ha tutta la forza, ma anche tutta l’innocenza, di un esordio. Lo guardo con una certa simpatia, anche con un po’ di vergogna: non ho l’abitudine di riaprire i libri che ho scritto, quindi non so quasi più di cosa si tratta, però sicuramente gli devo molto.
D: Ricordiamo che è il racconto delle vicessitudini di una famiglia di ebrei romani, i Sonnino, fatta in prima persona da Daniel, il più giovane dei suoi membri. È un libro che colpisce per la sua estrema libertà di pensiero, unita a un certo cinismo e a una buona dose di spregiudicatezza verbale. Ma anche a una forma sopita di romanticismo eroico o antieroico che sia. Questa è rimasta la sua cifra? È uscito ad esempio su La Lettura del Corriere un suo articolo intitolato Perché odio la natura. Lei è sempre così politically incorrect?
R: Diciamo che non amo molto l’espressione «scorrettezza politica», nel senso che la scorettezza politica talvolta mi pare più un vezzo che altro. All’origine dei romanzi che amo, e in generale del romanzo dal Seicento ad oggi, c’è il tentativo di dire delle verità, che siano espresse con la massima eleganza, tenendo conto che questo non è sempre possibile perché − ahimé − la verità non sempre è elegante. Ho la sensazione che la verità sia molto spesso diversa dalle cose che noi tendiamo a raccontarci. Per quanto riguarda per esempio la natura, noi siamo portati a credere per cliché che sia un luogo bello, ospitale, da contemplare, laddove invece basta starci immersi per capire che è un luogo perlopiù ostile, e mi piaceva in qualche modo rimarcarlo. Se questo è qualcosa che può apparire un po’ scomodo − se mi passa il temine −, non è un problema mio.
D: All’epoca si discusse molto per capire quanto ci fosse di autobiografico nel personaggio di Daniel che effettivamente ha nel romanzo all’incirca l’età che aveva lei allora, e, come lei allora, è docente universitario alle prese con la scrittura di saggi e il sogno di un romanzo. In realtà Daniel chi rappresenta? O rappresentava?
R: Sicuramente l’ispirazione autobiografica era molto forte, come è molto forte in qualsiasi cosa scrivo, e in qualsiasi cosa scriva chiunque, nel senso che è tremendamente difficile uscir fuori da noi stessi. Non saprei dirle se rappresentasse qualcosa o qualcuno. Sicuramente credo che al successo sorprendente di quel libro la figura di Daniel abbia in parte contribuito, nel senso che la narrativa italiana a quel tempo aveva delle caratteristiche molto precise che quel romanzo e quel personaggio mettevano un po’ in discussione. Il fatto che lui avesse il culto di un certo edonismo un po’ d’antan, il fatto che lui avesse dei problemi identitari così smaccati perché era mezzo ebreo e mezzo cattolico, il fatto che avesse nei confronti del proprio ebraismo un atteggiamento così profondamente risentito, lo rendevano sicuramente un personaggio eccentrico. Forse alcuni lettori hanno percepito quell’eccentricità. Tra l’altro, come per tutti i libri che hanno avuto un buon successo, è stato un romanzo che è stato amato ma è stato anche parecchio detestato.
D: Nel romanzo si racconta il successo e la caduta della famiglia Sonnino indugiando sulle dinamiche interne ai matrimoni che vi vengono descritti (tra Bepy e Ada, i capostipiti, tra Nanni, il socio di Bepy, e Sofia, tra Luca, suo figlio e padre della voce narrante, e Fiamma). Lei nel libro cita spesso anche Tolstoj. Come mai ha scelto questo come punto focale?
R: Grazie al cielo oggigiorno l’istituzione matrimoniale è decisamente diversa da quella dei tempi di Tolstoj o di Flaubert, nel senso che non è più un peccato mortale l’adulterio e c’è il divorzio, però è indubbio che sia un’istituzione che ha ancora una sua autorevolezza almeno in questa parte di mondo, cioè in una società occidentale piuttosto prospera. Se penso ai grandi libri dell’ultimo scorcio di secolo e di questo nuovo millennio, noto che alla fine sono tutti romanzi che, pur non essendo proprio delle saghe familiari, però hanno al centro la famiglia. Penso a libri come Una storia d’amore e di tenebra di Oz, ai libri di Yehoshua, a Pastorale americana, a un libro come Le correzioni di Franzen. Credo che nonostante il fatto che noi cerchiamo in qualsiasi modo di emanciparci dalla famiglia, la famiglia sia ancora il luogo di battaglia più interessante per un romanziere, ed è una cosa che sicuramente constato quasi ogni giorno nella mia piccola, disastrata famiglia.
D: Una curiosità. Nel romanzo si fa cenno al ritrovamento di due quadri di Caravaggio che fanno la fortuna di Nanni Cittadini, il socio di Bepy, nonno del protagonista, e che in qualche modo determinano una parte della storia. Uno di questi è un Giuditta e Oloferne. Nel 2014 a Tolosa è stata davvero ritrovata una seconda tela di Caravaggio di Giuditta e Oloferne nascosta in un’intecapedine dell’abitazione dei discendenti di un ufficiale napoleonico. Cos’è? La potenza della letteratura?
R: Non so che dire. Posso dire che in Francia è uscito un articolo che titolava Piperno prophétique. Banalmente artificio romanzesco, tra le altre cose nemmeno così geniale. Talvolta avviene che la vita imiti l’arte.
D: Nella prima parte del romanzo si sente un tono un po’ più spregiudicato e cinico che forse in qualche modo s’addolcisce quando racconta dell’innamoramento di Daniel per Gaia. Si dice la stessa cosa di lei in generale come narratore riferendosi al suo ultimo romanzo Dove la storia finisce rispetto ai precedenti. Lei come commenta a riguardo?
R: Sicuramente le due parti di quel romanzo sono abbastanza diverse. La prima parte è proprio da saga familiare nel senso che vengono messe in scena le dinamiche di una famiglia nel corso di tre generazioni, mentre la seconda s’appunta tutta sulla questione amorosa di Daniel e la sua amata da cui, nella migliore tradizione romanzesca, non è riamato. E quindi avevano un’ispirazione diversa. Tra l’altro − ma non voglio annoiarvi con questioni filologiche − quel romanzo ha avuto una lavorazione piuttosto strana perché è stato abbastanza rielaborato dal mio editore. Non è un romanzo che mi uscì così dalle mani. È il frutto di un lungo lavoro di editing, e io credo molto, tra l’altro, nei lavori di editing. Quella struttura è nata da una lunga battaglia con il mio editor di allora che si chiama Antonio Franchini. Però sicuramente ci sono due anime che io sento fortemente convivere in me: una più caustica, sarcarcastica e cinica, e una che tende a un mieloso sentimentalismo, quindi devo sempre trovare un compromesso. D’altra parte si dice che i cinici siano dei sentimentali delusi. Se c’è una linea ideale che tiene insieme tutti i miei libri, che siano di narrativa o saggistici, è sempre questo: l’equilibrio, molto squilibrato, tra sentimentalismo e sarcasmo.
D: Lei è considerato uno dei più grandi romanzieri italiani viventi. Quant’è difficile mantenere quest’aspettativa?
R: È una di quelle cose che non sta a me dire. Come scrivo nel saggio che ho appena pubblicato, Il manifesto del libero lettore, ho una certa diffidenza nei confronti di qualsiasi forma di canone, come fare le classifiche dei grandi o piccoli romanzieri, perché con il tempo si vede che queste classifiche molto spesso vengono straordinariamente ribaltate. Diciamo che ho capito da poco di essere uno scrittore: per molto tempo ho avuto la sensazione di essere un impostore. Poi quando capisci che non sei Flaubert, non sei Stendhal, non sei Proust, ma sei soltanto Piperno, è come quando un calciatore capisce di non essere Maradona ma che può guadagnare con quello che fa e può farlo onestamente. Quindi la cosa che io faccio è provare a scrivere i miei libri con la massima onestà, con un’abnegazione senza pari, nel senso che lavoro tutto il giorno senza pensare ad altro e spero ogni volta che il mio prossimo libro sia il libro che sogno di scrivere da quando ho iniziato a fare questo mestiere. Per adesso non ci sono riuscito.
D: Lei certo con i suoi romanzi fa felici molti dei “liberi lettori” di cui parla nel suo saggio. La aspettiamo per il prossimo, dunque.
R: Temo che per il prossimo romanzo ci vorrà un po’ di tempo perché sto lavorando a una cosa piuttosto grossa…
Ma se nel frattempo sei curioso di sapere qualcosa in più dell’ultimo saggio di Piperno, Il manifesto del libero lettore (Mondadori, collana Scrittori Italiani s Stranieri, 156 pagine), leggi qui.