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Recensione di Valentina apparsa su “il Bo” il 25 ottobre 2012 del romanzo di Julian BarnesIl senso di una fine” (Einaudi edizioni, collana Supercoralli, traduzione di Susanna Basso, 150 pagine).

È amaro il romanzo con cui lo scrittore inglese Julian Barnes si aggiudica il Booker Prize. A differenza di Arthur e George, il precedente che di poco ha mancato il premio, è un libro estremamente sottile; il punto di forza de Il senso di una fine (Einaudi, 2012) è la capacità dell’autore non tanto di costruire una trama avvincente (è sostanzialmente una biografia e, in fondo, l’esistenza di ciascuno ha dei significativi tratti di noia), ma piuttosto di riprodurre la complessità dell’umano vivere percorrendo con uno sguardo a volo d’uccello, ma con la profondità della narrazione in prima persona, la vita del suo protagonista.

Tony Webster, adolescente negli anni Sessanta, s’affaccia all’età adulta affrontando le prime esperienze della vita mediandole con ciò che legge sui libri e discute con gli amici: l’amicizia, però, si sfalda quando le strade si separano, e l’amore per Veronica, corpi che si strusciano attraverso la lana dei vestiti, è l’espressione di un sentimento ancora troppo sconosciuto e cerebrale che malamente si tramuta in sesso e finisce col diventare la costante dimostrazione di una loro qualche inadeguatezza. Poi la cesura determinante: il suicidio dell’amico più promettente sulla cui riuscita nella vita chiunque avrebbe scommesso. Segue drastico il cambio di scena: ai giorni nostri in una Londra svuotata e muta, di cui emergono solo i tratti contemporanei, come il ponte che i londinesi chiamano Wobbly Bridge (ponte che oscilla), e che assurge a metafora della precarietà umana, Webster non potrà più fuggire il passato, e lascerà riaffiorare dai ricordi dimenticati la sua parte di responsabilità dell’accaduto.

Il lettore è consapevole della disarmonia di cui si appresta a conoscere i dettagli fin dall’incipit del romanzo: “Ricordo in ordine sparso: -un lucido interno polso; -vapore che sale da un lavello umido dove qualcuno ha gettato ridendo una padella rovente; -fiotti di sperma che girano dentro uno scarico prima di farsi inghiottire per l’intera altezza di un edificio; – un fiume che sfida ogni legge di natura, risalendo la corrente, rovistato onda per onda dalla luce di una decina di torce elettriche […]; – una vasca da bagno piena d’acqua ormai fredda da un pezzo, dietro una porta chiusa”. Sono immagini discordanti queste prime, in cui stride proprio l’assenza di quel nesso logico che invece l’enunciato del titolo promette: il “senso” che dovrebbe permeare ciascuna esistenza, pena l’inutilità della vita. Ma se neppure della fine, naturale o creata ad arte che sia, come il suicidio, si trova il significato, cosa dire del senso della vita intera, quella che continua a srotolarsi fino ad un limite che è sconosciuto a ciascuno?

Diventa quindi un romanzo filosofico la riflessione che Julian Barnes fa della condizione umana attraverso i suoi personaggi: nulla viene spiegato e nemmeno didascalicamente raccontato. Quel che avvince non è la trama in sé, ma l’infilata di pensieri e di dialoghi che si insinua nel lettore come un teorema matematico di cui, se sono appena lasciate intuire le ipotesi, nulla viene detto della tesi.

Il tempo cronologico scandisce l’avanzare degli eventi, ma l’autore introduce volutamente un’aritmia, sfalsando intenzionalmente il tempo narrato e il tempo vissuto: “[…] a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano; ogni tanto sembra sparire fino che in effetti sparisce sul serio e non si presenta mai più […].Ma è a scuola che tutto è cominciato”.

Spietatamente quindi agli anni della scuola superiore è dedicata l’intera prima parte (“Uno”), come se la vita stesse tutta nei suoi prodromi, mentre il “Due” si condensa in qualche mese, quando i giochi sono fatti e il giovane dalle belle speranze è diventato un adulto, forse già un vecchio, che nulla ha risolto. Ha vissuto: quindi ha una figlia, una ex moglie, una casa ed un lavoro, ma nella mente è tormentato dal tempo che è passato senza restare e che lo riporta alla giovinezza in cui tutto si è segnato. Dell’euforia febbrile di quei giorni, che si inebria al pensiero di sostituire lo studio con l’azione, resta solo l’amarezza per non averla concretizzata in qualcosa di valore. E’ forse per questo, che, in extremis, attraversata una vita, Veronica resta per il protagonista ancora una deforme speranza, ma senza destino, perché la colpa di ciascuno è irrimediabile.

In inglese la parola del titolo sense (senso) ha la stessa ambiguità che mostra in italiano: se infatti può voler dire significato, rappresenta anche la capacità percettiva umana di cogliere i messaggi esterni; qual è il senso della fine, quindi? Non l’udito, non la vista, nemmeno il tatto o l’olfatto, o forse tutti insieme, che uniti all’empatia per il prossimo e non solo all’acume intellettuale, avrebbero evitato che la tragedia si riversasse su tutti. Forse.

Valentina Berengo





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