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Wallace non è solo un romanziere o un autore di reportage. È anche un grande appassionato di musica e nell’opera giovanile (del 1989) “Walk This Way“, a quattro mani con l’amico Mark Costello, racconta la sua attrazione per la musica rap.

Ascolta il racconto di Luca Leone:

Approfondimento:

Una percentuale altissima si ragazzi, in Italia, ascolta il rap, e si muove e parla come se stesse perennemente seguendo un copione scritto da chi detta legge nel settore: dj e produttori, oltre che cantanti. Canotta sportiva, pantaloni larghissimi e cappelli con visiera occupano, in serie, buona parte dei guardaroba. La gloriosa tradizione cantautoriale del nostro paese è stata interrotta, e sorpassata, dai nuovi poeti del beat, gli MC’s. Il 28 Aprile è uscito “Zeta”, film in cui recitano Clementino, Ensi, J-Ax e Fedez, nomi d’arte di alcuni dei dominatori della scena rap italiana.

Una prospettiva così delineata, costruita sulle fondamenta dei dati di fatto, sembra trasparente e comprensibile, se si considera il rap, e tutto il suo contorno, come “prodotto” giunto ai nostri lidi dagli Stati Uniti, sospinto dalle onde della globalizzazione. È come un cofanetto pieno di gadget luccicanti, che abbiamo accettato e fatto nostro, con la stessa accondiscendenza con cui si accoglie un nuovo fast food in una piazza storica.

Ma non è così semplice. Non si possono attribuire meriti (o colpe) all’inerzia di un mercato che riesce a portare tutto ovunque ci sia terreno fertile. Non è nemmeno possibile considerare il suo approdo e la sua proliferazione naturali, come è stato per altri generi di massa, come il pop o il rock inglesi.

Certi prodotti nascono apposta per valicare i confini del locale, o del caratteristico, abbattendo facilmente distanze continentali. Pullulano di possibili caratteri di facile identificazione. Sono universali. Nulla nel loro DNA, soprattutto , si oppone ad una diffusione su larga scala. Il rap invece no.

Nessuno, tra coloro che ha visto coi propri occhi nascere il fenomeno, ci avrebbe scommesso un dollaro, quanto a durata, bacino di utenza e impatto sociale, fatta eccezione per alcune sparute voci fuori dal coro, lungimiranti e per lungo tempo inascoltate.

Due ragazzi in particolare, David Foster Wallace e Mark Costello, si impegnavano in una netta presa di posizione, trasformando quelle voci in controtendenza nel libro “Il rap spiegato ai bianchi”, nell’ormai lontano 1989. Entrambi avevano l’età giusta per assistere alla comparsa nel firmamento, del nuovo astro del rap. Erano lì, attorno alla metà degli anni Settanta, quando il miracolo avveniva, nel momento in cui, cioè, alcuni dj (neri) scrivevano il primo capitolo, ad alcune feste private di Brooklyn. Urgeva un cambiamento, non meditato, ma netto, perché la gente (nera) si era stancata di ballare sempre le solite cose.

David e Mark intuivano, tramite il semplice ascolto, le leggi inviolabili – non scritte – che regolamentavano il movimento. Doveva essere musica esclusiva, non solo prodotta e ascoltata da afroamericani, ma puntata contro gli stessi bianchi. Doveva fungere da canto iniziatico di una setta, protetto da lucchetti impossibili da forzare, quasi da coltivare in segretezza. Si sposava perfettamente con l’aggressività di cui bisognava dotarsi, da ragazzi di colore, ogniqualvolta si usciva in strada, col rischio di incorrere in una gang rivale o in un poliziotto bianco razzista. Si doveva far carico, questa musica, della frustrazione per una mancata, e forse mai voluta davvero , parità di diritti. Un inno all’odio, a volte senza mezzi termini, un modo per dire: a me e alla mia gente lasciateci stare. O un lamento per il dolore, per la morte di M. L. King e di Malcom X, o dei giovanissimi fratelli caduti nelle faide di quartiere.

Eppure Wallace e Costello subdoravano la traccia di un percorso più lungo, il prospettarsi di qualcosa di grosso e futuribile, ben oltre i confini del ghetto. Non solo perché avevano visto da bambini i loro padri cantare a squarciagola James Brown, storpiando o censurando i testi con le più manifeste esaltazioni del potere nero… ma soprattutto perché loro erano i primi innamorati, ad essere stati stregati dalla brutale e rozza serenata. Piaceva da matti anche a loro.

Strambamente equipaggiati di pantaloni militari, scarpe da ginnastica e decine e decine di audiocassette, escono ai primi bagliori lunari dal loro guscio borghese, da nerd ante-litteram, per indagare nella scena rap di Boston. Partecipano a concerti, suonano il campanello delle case dei più grandi conoscitori del fenomeno di quegli anni, degli studi di registrazione. La loro missione è cercare di spiegare, nel libro, perché il rap è il nuovo pop o rock, rispondendo alla domanda “perché diavolo dovrebbe piacerci così tanto?” a noi bianchi, al nemico. Il nostro presente era stato quindi da loro diagnosticato, in qualche modo previsto: prima o poi si sarebbe giunti alla pace, al compromesso storico.

Sottolineano, a questo proposito, nel libro, il valore simbolico di un esperimento come “Walk this way”, canzone del 1975 degli Aerosmith rifatta in featuring con i Run Dmc, nel 1985. È davvero la svolta, l’incontro epocale tra rock (mondo dei bianchi) e rap (mondo dei neri)? Oppure no? Cosa c’è dietro? Come bene sapranno i fan di Wallace (Costello non è uno scrittore, per quanto i capitoli da lui firmati siano ben costruiti e colmi di ironia) i suoi scritti sono poliedrici. Parte sempre dal particolare, laddove in questo libro il particolare è la musica, il rap, per arrivare al generale, alla società in toto. Se i neri usano il rap come arma contro i bianchi, Wallace, assieme al partner Costello, se ne approprian per smascherare, per togliere i veli, fino a mostrare l’umanità nuda, tra falsi idoli, utopie di parità, e divergenze secolari mai completamente estinte.





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